Il coraggio è un poeta con la faccia da bambino, gli occhialini rotondi e una sciarpa rossa al collo.
Un poeta, null’altro. A volte le cose sono semplici, molto semplici. E nelle trasvolate dello spirito, nei sentieri ininterrotti del sapere, ci sono compagni di viaggio che ti avevano indicato il cammino all’inizio del percorso compiuto e che inevitabilmente finisci per ritrovarteli lì, davanti. Sempre davanti. Robert Brasillach è così. All’origine, alla nostra origine, c’è lui. Se siamo qui è anche grazie a lui. Eppure, costantemente, finiamo per ritrovarlo avanti a noi. Lui è sempre lì, a dirci cosa siamo, a dare il senso di un’identità, di una scelta, di uno stile di vita. Lui è lì. Lui è dappertutto.
In un’epoca che non sa più volere, pensare e costruire nulla di nuovo e che per questo è sempre alla ricerca di anniversari da cannibalizzare per nutrirsi delle carcasse del passato, il centenario della nascita del poeta di Perpignan non ha destato notizia. Non è interessato a nessuno ricordare un poeta fucilato a trentasei anni per aver scritto degli articoli di giornale. Nella vicenda di Robert Brasillach c’è la loro eterna colpa. E’ per questo che tacciono. Altrimenti dovrebbero ricordare cosa significa elevare la faida e il fratricidio al rango di istituzioni etiche. Altrimenti dovrebbero ricordare, come ha scritto Luca Leonello Rimbotti, che «il giudice Mornet, pubblico ministero al processo Laval, era stato, nella magistratura vichysta, attivo presidente della commissione di denaturalizzazione degli ebrei francesi. Per dirne un’altra ancora, Marcel Reboul, procuratore di Stato e commissario del governo provvisorio che chiese e ottenne la condanna a morte di Brasillach, fino a poco tempo prima era stato solerte esecutore della repressione giudiziaria del governo Pétain nei confronti del Maquis, la “resistenza” anti-tedesca. O infine, tra i mille casi di comportamento eticamente degradante dell’antifascismo, si può ricordare quello del generale de Lattre de Tassigny, di stanza nelle colonie francesi: risoluto repressore di quelli che chiamò “traditori gaullisti”, quando questi tentarono in Siria nel 1941 un’insurrezione contro Vichy, lo ritroviamo nel 1944 braccio destro di De Gaulle sotto bandiera americana». Gli aguzzini, si sa, devono compensare la viltà con la ferocia ed è per questo che sono soliti bagnare le loro disinvolte conversioni con piogge di sangue rituale. Fa male ricordare tutto questo. Fa male ricordare un intellettuale giustiziato ignorando le richieste di grazia giunte da personalità come Cocteau, Colette e Claudel, da resistenti come François Mauriac, Jean Paulhan e Albert Camus.
Ma in fondo ciò che conta non è nemmeno questo. Un mondo senza vergogna può forse sopportare persino il ricordo dei propri miti di fondazione basati sull’orgia di sangue e lo stupro. C’è tuttavia un altro aspetto della figura di Brasillach che risulta insopportabile all’attuale mafia politico-culturale: il suo sorriso. Brasillach inquieta per la gioia, il vitalismo, l’esuberanza che emana in ogni sua foto, in ogni suo scritto. La freschezza, la delicatezza con qui questo poeta ha immortalato la sua epoca rimangono impresse a fuoco nella storia, e questo è intollerabile per chi considera la giovinezza dello spirito un peccato da redimere. Brasillach dilania il grigio della cultura dominante per il solo fatto di essere esistito, questa è la sua colpa. Egli ha peccato mortalmente, perché ha colto forse meglio di chiunque altro il senso dell’esperienza fascista e ne ha dato un ritratto vivo e perennemente coinvolgente. Un ritratto che è lì, che vive, che non cessa di ispirare chi ancora oggi sogna e vuole un mondo in cui la banalità sia il peggiore dei crimini e l’entusiasmo un’esperienza quotidiana.
Le pagine che il poeta di Perpignan ha dedicato al fascismo come “poesia del XX secolo” rimangono in effetti tra le cose più penetranti mai state scritte sull’argomento. « I fanciulli che saranno poi giovani di vent’anni – scriveva Brasillach – apprenderanno con oscura meraviglia questa esaltazione di milioni di uomini, i campi della gioventù, la gloria del passato, le sfilate, le cattedrali di luce, gli eroi pronti alla lotta, l’amicizia tra le gioventù delle nazioni ridestate, José Antonio, il fascismo immenso e rosso […]. Malgrado in questi ultimi mesi abbia così fortemente diffidato dei molti errori del fascismo italiano, del nazionalismo tedesco, del falangismo spagnolo, sono certo che non potrò mai dimenticare il meraviglioso splendore del fascismo universale della mia giovinezza, il fascismo, nostro male del secolo». E altrove, ponendosi un quesito oggi forse ancor più attuale: «E’ un fatto, ma abbiamo sempre trovato grottesco che gli avversari del Fascismo ignorassero completamente la gioia d’esser fascisti; non cercassero neanche di capire da cosa nasceva questa felicità. Gioia che si potrà criticare, dichiarare abominevole o infernale, se preferite, ma sempre gioia». In visita a Venezia incontra una comitiva di Balilla. L’istantanea è illuminante: i bambini «cantano filastrocche infantili che non significano nulla, come in tutti i paesi del mondo. Cantano anche in coro, con voce salmodiante, inni fascisti. Avanguardisti di quindici anni, fascisti di venticinque guidano i greggi ridenti e insegnano loro l’inno di un paese che ha scelto per parola d’ordine: giovinezza!».
C’è un’insistenza rivelatrice, in queste citazioni, che si appunta su tutto ciò che è esplosione di vita, poesia, gioventù, gioia. Prima e meglio di tanti storici e politologi, sarà il poeta Brasillach a spiegare al mondo il significato più pieno, autentico e solare di ciò che George Lee Mosse definirà in seguito “nazionalizzazione delle masse”. Ovvero la capacità, da parte del fascismo, di riunire il popolo in una comunità di destino attraverso liturgie politiche mobilitanti. Comunità di destino che, tuttavia, molti interpreti del dopoguerra interpreteranno in senso negativo, brumoso, oscuro, settario, quasi che alla sua base il collante fosse una tetra pulsione di morte. Poveracci.
Ma c’è un altro aspetto della vita e dell’opera di Brasillach che oggi appare esemplare e paradigmatico di una certa mentalità vitalista: il fatto, cioè, di vivere la propria epoca a pieno, con curiosità, in una pluralità sorprendente di interessi, in un’inesausta sete di mondo. Brasillach scrive di Corneille e di Giovanna d’Arco, pubblica saggi sull’Alcazar e su Degrelle, parla di teatro e persino di cinema. Nei suoi libri non c’è mai, nemmeno per un minuto, il lamento, la lagna, la nostalgia per i tempi andati, lo scoramento, il pessimismo. C’è, invece, il senso di un’esistenza vissuta in pienezza, a 360 gradi, nello spirito del futurista “uomo moltiplicato”. Se il reazionario guarda il mondo e vorrebbe sempre essere altrove, Brasillach osserva la propria epoca e dice: je suis partout, io sono dappertutto. Al di là di ogni nostalgismo e di ogni commemorazione agiografica, c’è quindi in Brasillach una voce che ci parla ancora oggi, un messaggio che torna, agli esordi del XXI secolo, a dare un senso alla nostra presenza nel mondo. Tale messaggio abbaglia nella sua chiarezza: non concepit l’esistenza se non come esplosione esuberante di gioia, vivete anche i compiti più gravosi con allegria solare e, infine, siate sempre uomini del vostro tempo curiosi di ogni novità.
Proprio Je suis partout era il nome del giornale che raccoglieva le migliori intelligenze della Francia non conformista e di cui l’autore de I sette colori diventerà direttore. In pieno fervore antifascista, con l’avvento al potere del Fronte popolare di Blum, la proprietà del giornale ne decise pavidamente la soppressione, ma la redazione finì per continuare le pubblicazioni autotassandosi.«Procedevamo – racconterà Brasillach – in uno stimolante clima di calunnie e di immondezze […]: diventavamo, per i nostri avversari, qualcosa di simile dell’organo del fascismo internazionale. Ma noi sapevamo di essere soprattutto il giornale della nostra amicizia e del nostro amore per la vita».
Il fanatismo del suo attaccamento alla causa della giovinezza, tuttavia, non sfocerà mai in una cecità ideologica monolitica e priva di sfumature. Egli combatte la sua battaglia culturale senza mai smettere di farsi domande, senza mai chiudere la porta ai dubbi, tenendo fede alle due sole virtù cui non smetterà mai di credere: fierezza e speranza. Allo scoppio della guerra contro la Germania, Brasillach compie il suo dovere di patriota, andando a combattere un conflitto che considera fratricida. Eppure, a differenza di molti irresponsabili propugnatori della guerra che poi finiranno per darsi alla macchia dopo la prima salva di fucile, lui, il “poeta del fascismo”, a combattere con la divisa delle democrazie occidentali ci va davvero. Riluttante, ma ci va. Dopo la sconfitta, l’internamento e la salita al potere di Pétain, Brasillach riprende la penna per imbarcarsi nell’impresa disperata di salvare il salvabile, mantenere l’unità dei popoli europei e ridare una posizione onorevole alla Francia nel nuovo ordine continentale. Ma gli eventi precipitano. Dopo il ritiro dei tedeschi, i “liberatori” si concedono il consueto baccanale di sangue. Alla notizia dell’arresto dell’anziana madre, il poeta di Perpignan si consegna. Nel carcere di Fresnes si confessa a Jacques Benoist-Méchin, con un tono tra l’ironico e l’amaramente profetico: «Bisogna saper morire giovane. Robert Brasillach a 75 anni che legge con voce tremula le bucoliche greche, mentre riscalda i suoi reumatismi accanto al fuoco. Pensateci sopra. Quale orrore». Il processo, lo abbiamo detto, rientra nella millenaria storia della faida. L’accusa non riesce a dimostrare il coinvolgimento del poeta in un solo fatto violento. Tutto si basa solo ed esclusivamente su articoli di giornale. Alla lettura della sentenza di morte, dal pubblico si leva un grido: «E’ una vergogna». Pallido ma fiero, Brasillach corregge lo spettatore scandalizzato aggiungendo: «No, è un onore». Alle 9.38 del 6 febbraio 1945 viene fucilato dal plotone di esecuzione. Ha solo 36 anni ed è solo un poeta. Ed oggi, lo sentiamo con tutta la nostra joie de vivre, egli è qui. Egli è dappertutto.