Ciò che muove gli uomini in alcune scelte è un qualcosa di inspiegabile per alcuni. Per noi no. Fin quando ci saranno uomini pronti a combattere fino all’ultimo respiro si potrà dire che ancora vive un’idea, un barlume di speranza. In un mondo sempre più ingrigito, sempre più piatto e monotono sentiamo il bisogno di combattere per un’idea come ci hanno insegnato i nostri predecessori. Alle volte non si dà peso alle gesta gloriose dei nostri avi, pare quasi un peso leggerli dai libri di storia. Per noi è un dovere ricordare la “bella morte” di uno dei più duri. Oggi, 27 Settembre, giorno della sua nascita, ricordiamo Alessandro Pavolini, l’ultimo poeta armato. Egli fu uno degli ultimi, appunto, ad imbracciare le armi a guerra ormai persa; fu l’ultimo a dirigere il Partito Fascista, che in quegli anni, in un’Italia ormai divisa, diventò il Partito Fascista Repubblicano in contrapposizione poi al resto delle forze politiche e belliche come partigiani ed angloamericani; fu l’ultima speranza delle brigate nere che erano sotto la sua direzione; fu uno degli ultimi a cadere nella storia del Fascismo. Il triste epilogo avvenne nei giorni della cattura a Dongo del Duce: la sua salma fu appesa a testa in giù a Piazzale Loreto insieme ai corpi Benito Mussolini, Claretta Petacci e Niccolò Bombacci. Il suo corpo senza vita, insieme agli altri tre, fu dilaniato, torturato in pubblica piazza, così, per dar sfogo, dopo la fine di tutto. Non ci soffermiamo sulle bastardate commesse sui morti, concentriamoci sul fuoco vivo che arde nei fascisti. Pavolini fin dalla nascita era un “marchiato”. Figlio di una famiglia borghese, già all’ età di otto anni, e qui il sangue che gli scorreva in vena iniziò a dare veramente i suoi frutti, dimostrò di avere grandi doti. Creò una piattaforma d’informazione, “La Guerra”, insieme al fratello Corrado. Il giovane Pavolini era già a quell’ età un cultore della guerra. Nel suo primo lavoro infatti descrive le sue posizioni rispetto alla Campagna di Libia. Buzzino lo chiamavano in famiglia, a causa del suo colorito olivastro e dalla sua corporatura esile e tozza. Buzzino qualche anno dopo si diede da fare al ciclostile per scrivere un altro foglio, il “Buzzegolo”, nel quale prendeva posizione e si schierava a favore di un intervento dell’Italia nella Grande Guerra. Col suo entusiasmo di giornalista si iscrisse al liceo classico e, ben presto, all’età di diciassette anni, aderì ai fasci di combattimento. Successivamente, nonostante decise di frequentare ben due corsi di laurea (legge all’ università di Firenze e scienze sociali a Roma) riuscì a non allontanarsi mai dai salotti fiorentini e, in primis, continuò la frequentazione delle avanguardie, con le quali ci fu un rapporto di stima reciproca. D’altronde come disprezzare all’epoca una personalità come Pavolini? Intanto iniziavano le prime avventure squadriste del giovane, il quale partecipò alle varie azioni capeggiate dal conte Dino Perrone Compagni, un noto squadrista toscano. Partecipò alla Marcia su Roma del 1922 per una coincidenza; si trovava a Roma per dare un esame e riuscì pertanto ad unirsi alla colonna del Fascio fiorentino. Di lì a poco Buzzino si sarebbe laureato. Nel 1924, da gran cervellone, diede entrambe le lauree. L’aspetto del cervellone che si apprezza, però, come già detto, sta nella sua grande capacità di far conciliare il pensiero con l’azione, cosa non da tutti. Nello stesso anno infatti Pavolini partecipa, anzi, quasi dirige, le contestazioni all’ università di Firenze. In suo onore innumerevoli righe sono state scritte, ma, ciò che più ci si augura è che, così come Buzzino, sempre più si possa far coincidere pensiero ed azione ed essere avanguardia.