Negli anni precedenti allo scoppio del primo conflitto mondiale, Fiume era palcoscenico di un forte contrasto tra la comunità italiana, storicamente prevalente all’interno della città, e quella croata che, grazie all’espansione del porto, si era insediata nel quartiere operaio di Sušak, ad est della Fiumara. L’Italia premeva per l’annessione di Fiume ai confini italiani in quanto la maggior parte della popolazione in città era italiana, allo stesso modo si comportava la Croazia, in quanto la maggioranza nei villaggi adiacenti la città era croata. Nel 1915 l’Italia entra in guerra stipulando il Patto di Londra che prevedeva la cessione della città di Fiume alla Croazia. Nel 1918, in seguito al crollo dell’ Impero Austro-Ungarico, le truppe croate ebbero il via libera per occupare la città dalmata, ma si ritrovarono contro il consiglio comunale che rifiutò l’annessione ai territori croati e chiedeva espressamente di essere inclusa nei nuovi confini italiani. Al forte contrasto in città si cercò di porre rimedio, nel 1919, durante la conferenza di pace di Versailles dove il Presidente del Consiglio, Vittorio Emanuele Orlando, e il Ministro degli Esteri, Sidney Sonnino, proposero l’annessione di Fiume al territorio italiano, a cui si oppose il presidente americano Voodrow Wilson. All’incapacità del governo italiano di affermarsi in campo diplomatico e alla politica americana si oppose animosamente il poeta Gabriele D’Annunzio. Tra l’11 e il 12 settembre del 1919 il poeta italiano al comando di alcune migliaia di soldati occupò Fiume, concretizzando gli orientamenti nazionalisti italiani che vedevano nelle conclusioni del trattato di pace di Versailles l’affermazione di una “vittoria mutilata”. L’anno successivo D’Annunzio occupò anche Zara, dopo che il poeta ebbe proclamato, l’8 settembre 1920, la Reggenza Italiana del Carnaro. L’impresa di D’annunzio si scontrò con la politica estera condotta dai politici italiani, al punto che il 12 novembre 1920 il nuovo governo di Giolitti attraverso il trattato di Rapallo raggiunse un intesa con la Iugoslavia in cui si stabiliva che Zara e l’Istria passassero all’Italia, la Dalmazia rimanesse sotto il dominio slavo e Fiume diventasse Stato indipendente. Questa manovra non fu ben vista da D’annunzio che rifiutò ogni genere di compromesso con lo Stato italiano. La resistenza del poeta e dei sui legionari ben presto si scontrò con l’esercito italiano del generale Enrico Caviglia che tenne Fiume sotto assedio, le tragiche giornate passate alla storia come “Natale di sangue” del 1920. A distanza di pochi mesi dalla Grande Guerra, gli stessi uomini che avevano combattuto fianco a fianco nelle trincee contro gli austriaci si trovarono gli uni contro gli altri: da una parte l’esercito italiano, dall’altra i legionari fiumani. La battaglia durò cinque giorni; il giorno 21 dicembre il generale Caviglia procedette con il “blocco effettivo per terra e per mare” dando un ultimatum di 48 ore a soldati e navi per rientrare in patria, a cui si contrappose D’Annunzio proclamando lo stato di guerra. Scaduto l’ultimatum, si giunse al giorno 23 dicembre che solamente pochi uomini e nessuna nave avevano lasciato Fiume e la guerra civile per il poeta era sempre più concreta, nonostante ciò ordinò di restare sulla difensiva e si non attaccare. All’alba del 24 dicembre le truppe della 45ma divisione iniziarono ad invadere Fiume. Inizialmente l’avanzata avvenne senza spari, perché i legionari avevano l’ordine di limitare di far fuoco sui fratelli e si ritirarono verso la linea prefissata per la resistenza. Allora issarono grandi cartelli con su scritto: “Fratelli, se volete evitare la grande sciagura, non oltrepassate questo limite. Se i vostri Capi vi accecano, il Dio d’Italia v’illumini.” Nel frattempo in città si respirava aria natalizia ed i fiumani ritenevano impossibile che gli italiani attaccassero i propri fratelli durante la vigilia di Natale, ma proprio alle ore 18 di quel giorno iniziarono gli attacchi che furono prontamente tamponati dai legionari formati per la maggior parte da arditi. Il 25 dicembre il Generale Ferraio d’accordo con Caviglia decise di sospendere l’attacco per riprendere all’alba del 26. Malgrado l’appoggio delle artiglierie i legionari si dimostrarono tenaci e contrattaccarono in più punti. Caviglia ,che aveva previsto solo un intervento di terra, fu costretto ad intervenire anche via mare ordinando all’Ammiraglio Simonetti di bombardare il palazzo del Comando tra gli obiettivi militari della città. Alle 16 dello stesso giorno, l’Andrea Doria si avvicinava alla riva fiumana e con un colpo abbatté il palazzo del Comando. Il giorno seguente continuarono i bombardamenti, la stessa sera vista l’impossibilità di continuare la resistenza e visto che il generale Ferrario aveva rifiutato di consentire lo sgombero a donne, anziani e bambini, il sindaco di Fiume ed il capitano Host-Venturi si recarono a parlamentare al Comando Italiano, ma fu tutto inutile poichè il generale Ferrario fu irremovibile ma comunque concesse una tregua fino alle ore 14 del giorno seguente, dopodiché sarebbero ripresi i bombardamenti. La mattina del 28 dicembre si riunì il “Consiglio della Reggenza”, per decidere se cedere o meno. Soltanto Grossich si dichiarò favorevole alla resistenza. Gabriele D’Annunzio verificata la sfiducia da parte della cittadini decise di abbandonare il comando della città mantenendo però il comando dei legionari di Ronchi. Il 31 dicembre il consiglio comunale cittadino raggiunse un accordo che venne firmato ad Abbazia con le truppe regolari italiane. Il 2 gennaio il Poeta con i suoi legionari si recò al cimitero per rendere omaggio ai caduti di quella guerra civile: una cinquantina i morti tra entrambe le parti. Infine il giorno 18 Gennaio D’annunzio si congedò dalla cittadina fiumana e ricevette dall’intera città un’ultima manifestazione di delirante affetto. E’ doveroso dire come l’impresa dannunziana abbia fatto scuola per la successiva marcia su Roma e per il rituale fascista. D’Annunzio, certo neppure conscio di manipolare le masse con grande maestria, poiché di certo egli agiva così come si sentiva, senza secondi scopi, sperimentò tutto quanto poi il fascismo farà suo: il discorso dal balcone, il saluto romano, il grido “eia, eia, alalà!”, il dialogo drammatico con la folla in delirio, il ricorso a simboli religiosi, ai martiri ed alle reliquie.
Aldo Ad.