Nel periodo successivo alla dominazione aragonese Napoli vide susseguirsi, alla sua guida, una moltitudine di vicerè sottoposti al governo centrale di Madrid ( all’epoca da poco nominata capitale dell’impero spagnolo, probabilmente per la sua posizione centrale). A differenza di quanto, date le premesse, si possa immagine, la Città ricoprì un ruolo tutt’altro che marginale: fu, infatti, protagonista di una esponenziale crescita demografica, urbanistica, culturale ed economica (fino al blocco che conseguì all’introduzione del baronato). Crebbe in particolar modo il settore tessile e ricchi furono gli scambi commerciali per i rifornimenti alimentari; riuscì, grazie alla florida attività artistica e culturale, ad attirare più turisti di quanto facesse la capitale madrilena. Di contro, conobbe già la piaga dell’urbanesimo a seguito della chiusura della città, sia da terra che da mare, operata da Don Pedro di Toledo con la costruzione di Via Toledo e dei Quarteras, risultando già vittima della mala gestione ed organizzazione delle sue risorse e possibilità. Dal punto di vista bellico lo scenario rimase immutato rispetto agli anni precedenti: la città dovette far fronte prima alle angherie della Lega Santa di Papa Clemente VII e successivamente all’avanzata turca. Nonostante il quadro dell’epoca non fosse estremamente florido, la città visse un elevato incremento dell’attività culturale, artistica e letteraria grazie alla presenza di figure del calibro di Torquato Tasso, Giovambattista Basile, Giambattista Marino, Tommaso Campanella, Giordano Bruno, Giambattista Vico, Battistello Caracciolo, Bernardo Cavallino, Salvator Rosa, Luca Giordano, Pietro Bernini, Girolamo Santacroce e Domenico Fontana. Quadro prospero sicuramente, ma altrettanto sicuro era il malcontento che, data la mancanza di comunicazione tra il governo locale e quello centrale, crebbe vertiginosamente, in particolar modo quando fu aumentato il prezzo della frutta per far fronte alle continue guerre sostenute dalla Spagna sul fronte del centro Europa: “La contrarietà ed i dispareri si moltiplicavano in ragione del numero delle cose superflue.” In questo scenario si distinse Masaniello, giovane pescatore, che al grido di “Viva il re di Spagna, mora il malgoverno”, aizzò le folle contro una tassazione sempre più tagliente nei confronti del basso ceto. Rivolta che non si placò con la sua morte (morì tradito da una parte stessa dei rivoltosi), ma che, non solo continuò a Napoli sotto la guida di Gennaro Annese ma che si espanse anche a Palermo e Salerno e potè essere sedata solo con la venuta di Don Giovanni d’Austria, figlio di Filippo IV, a Napoli. Ai problemi di carattere politico-amministrativo e sociale si aggiunse, nel 1631, una terribile eruzione del Vesuvio che distrusse Portici, Resina (attuale Ercolano), Torre del Greco e Torre Annunziata. La popolazione si riversò per interno dei neonati Quarteras, nella zona del porto e nelle chiese cittadine e, in linea con la veracità dello spirito dei napoletani, nacque, in segno di ringraziamento e devozione, la Guglia di San Gennaro, santo patrono della città. L’incremento massivo della densità abitativa causò, pochi anni dopo l’eruzione, un’epidemia di peste che decimò la popolazione. Dal punto di vista politico, dopo che fu sedata la rivolta di Masaniello diversi furono i problemi legati alla guerra di successione spagnola, periodo durante il quale l’Austria conquistò la città e la tenne fino a quando tornò indipendente, con Carlo III di Borbone. Grazie a Carlo III grandissimo impulso ebbero l’arte e l’architettura: fu costruito il Teatro San Bartolomeno (poi ribattezzato Teatro di San Carlo), la Reggia di Portici e quella di Capodimonte, il Foro Carolino (oggi Piazza Dante), il Real Albergo dei Poveri
e la piazza del Reclusorio (oggi Carlo III). Ci troviamo, quindi, nel periodo borbonico, nella Napoli Illuminista, una Napoli in cui, nel 1799 sorse la Repubblica Napoletana, non riconosciuta in Francia, fortemente limitata nelle autonomie e schiava del malcontento dei ceti popolari. Non fu difficile, in questo quadro, per l’armata sanfedista, disfare quanto costruito, grazie all’aiuto dei lazzari (napoletani filo-borbonici).
Antonietta