Il 28 dicembre 2015 ci lasciava il grande Ian Fraser Kilmister, carismatico frontman, bassista e fondatore dei Motörhead, iconica band inglese. “Lemmy” – come racconta nella sua biografia – aveva ricevuto quel soprannome all’età di 10 anni quando, spostatosi ad Anglesey, un’isola gallese nel Mare d’Irlanda, dalla natìa Burslem, nello Staffordshire, veniva chiamato con quel nomignolo che in slang voleva dire “Caprone”.
Ebbene, chissà quanti di quelli che lo definivano in questo modo avrebbero mai pensato che “Lemmy” sarebbe diventato il nome associato da milioni di persone ad uno dei più grandi artisti rock ‘n’ roll di sempre.
Ian inizò presto ad affacciarsi al mondo della musica, fondando e partecipando, negli anni dell’adolescenza, a molti gruppi che ebbero però storia breve. Un’importante esperienza musicale – oltre che di vita – la ebbe nel ’67 quando a 22 anni viaggiò per sei mesi in qualità di tecnico nel tour del leggendario Jimi Hendrix e dei The Nice. Qualche anno più tardi, nel 1972, entrò a far parte degli Hawkwind, per i quali, oltre ad essere basso e voce scrisse molte canzoni. Fu proprio dall’ultima di queste che nel 1975, una volta lasciato il progetto e aver fondato una nuova band, Lemmy trasse quel nome che sarebbe poi diventato una pietra miliare della musica heavy metal e non: Motörhead.
Il gruppo mosse i primi passi sotto l’etichetta Stiff, pubblicando Leaving Here. Nello stesso anno lasciarono la casa discografica e si spostarono con la Chiswick Records pubblicando nel 1977 il primo ed omonimo album. Sempre sotto questa etichetta furono pubblicate alcune compilation nelle quali si alternavano i pezzi dei vari gruppi che erano sotto contratto con la Chiswick. Tra gli altri ricordiamo in particolare Long Shots, Dead Certs And Odds On Favourites, compilation nella quale compaiono anche gli Skrewdriver. Ebbene sì, perché a conferma delle voci che hanno sempre parlato di una particolare amicizia tra i due gruppi vi è anche questo album, oltre che un concerto alla King George’s Hall di Blackburn di cui però non sono mai state reperite prove fotografiche. A ricordarlo con piacere ci sono però sempre state le testimonianze di Ron Hartley, chitarrista della prima formazione degli Skrewdriver, e lo stesso Ian Stuart Donaldson. Proprio con Ian Stuart, Lemmy ha sempre intrattenuto una forte amicizia, tanto che alcuni rumors mai effettivamente comprovati parlerebbero di una corona di fiori mandata dal frontman dei Motörhead al funerale dell’amico.
Dopo aver abbandonato anche la Chiswick passarono alla Bronze Records con la quale pubblicarono diversi album, tra cui Overkill che rappresentò la svolta del gruppo e li consacrò al successo. Con questa etichetta incisero molti lavori, fino a quando, nel 1990, si arrivò ad una rottura.
Questo evento fu comunque positivo per la carriera della band che fu contattata dalla Sony Music. Dopo la firma del contratto, i Motörhead pubblicarono l’album 1916, in cui l’omonimo brano scritto proprio da Lemmy, racconta la storia di un sedicenne che parte volontario per andare al fronte, consapevole che non tornerà a casa, ma conscio che il suo sacrificio lo porterà ad affiancare gli eroi che lo precedettero nelle lotte per la patria.
L’anno seguente, nel 1992, sempre sotto l’egida della Sony uscì l’album March Or Die, in cui, ancora una volta, la title track scritta dal leader del gruppo, esamina la guerra, e partendo dai pensieri di un giovane soldato arriva a criticare quelle guerre mosse da pochi potenti in nome di meri interessi economici che portano alla morte di migliaia di uomini e alla devastazione del pianeta.
Nel 1993 Lemmy, assieme al resto del gruppo, che nel frattempo ha avuto diversi cambi di formazione, decise di alzare ancora di più il tiro e proseguire sulla strada intrapresa tempo prima con 1916, pubblicando Bastards: disco che analizza e glorifica i combattenti della Seconda Guerra Mondiale. La tematica è pero troppo scottante per Sony, che abbandona il gruppo. Nonostante il parere contrario delle major, Lemmy e i suoi decidono ugualmente di pubblicarlo per un’etichetta indipendente. Questo ebbe ovvie ripercussioni sulle vendite dell’opera, che risultò tra le meno redditizie del periodo. Tra i pezzi che compongono l’album spicca senza dubbio Death Or Glory, un magnifico testo di elogio a tutti quei soldati che combattendo in nome di un’idea hanno immolato la propria vita.
Molti gruppi del genere con testi simili avrebbero firmato la loro esclusione dalle scene, ma lo stesso non si può dire per Lemmy e i suoi che invece, già poco tempo dopo pubblicarono un nuovo album, Sacrifice. D’altronde come afferma anche Kilmister in Make ‘Em Blind «[…] The path is made for us […]You’ll never understand, we bear your names but not your guilt, we do not like the world you built», che sembra dire «Hey amico, noi siamo i Motörhead e facciamo il cazzo che ci pare!» .
E lo hanno fatto, ricordando a tutti, di tanto in tanto, con chi avevano a che fare portando avanti l’attitudine che contraddistingueva il loro stile. E lo dicevano così, come gli veniva più semplice, senza mezzi termini e senza mandare qualcuno a dirtelo. Te lo dicevano nel modo più chiaro possibile che loro non li potevi calmare o addomesticare: «We are Motörhead born to kick your ass!».
Certo negli anni non sono certo mancate le critiche da parte dei soliti perbenisti che cercavano di mettere all’angolo Lemmy, non solo per i testi del gruppo, ma anche per quella sua passione per i cimeli nazionalsocialisti e sudisti. Dopotutto se pensiamo al leader dei Motörhead non possiamo non ricordarlo con un cappello da confederato, con qualche mostrina delle SS e con una croce di ferro in bella vista.
Tutto ciò gli costò anche delle controversie legali quando, nel 2008, posò in alcuni scatti per un giornale tedesco con un berretto tedesco con un Totenkopf, dal momento che nella «Germania più libera – e paranoica – della storia», un articolo del codice penale vieta l’esposizione di qualunque simbolo risalente al III Reich.
Lemmy liquidò tutti quelli che provarono a montare il caso mediatico sulla faccenda a modo suo, con quell’irriverenza e quel fare politicamente scorretto che sembrava ricordare a quegli smemorati con chi avessero a che fare: «Adesso ti racconto qualcosa di storia. Sin dagli inizi, i ragazzi peggiori erano quelli che indossavano le uniformi più belle. Napoleone, i confederati, i nazisti, avevano tutti delle uniformi spettacolari. Voglio dire, le uniformi delle SS sono fottutamente belle! Erano le rock star dell’epoca, cosa vuoi farci? Erano semplicemente belle. Non venirmi a dire che sono nazista solo perché possiedo queste uniformi. Nel 1967 ho avuto la prima fidanzata di colore e da allora ne ho avute tante altre. Non capisco il razzismo e non l’ho mai nemmeno considerato». Una frase che sembra tra l’altro ricalcare quella di un altro grande artista, David Bowie, che affermò che Adolf Hitler era stato la prima vera rockstar. E proprio a Bowie, Lemmy dedicò un tributo, con una cover di Heroes pubblicata nell’album postumo Under Cöver. Quel Bowie che aveva altresì subito un arresto al confine russo-polacco per materiale nazionalsocialista. Ma questa – come si dice in questi casi – è un’altra storia.
Insomma anche questa faccenda era chiarita per Lemmy. Eppure qualche sprovveduto ci riprovò tirando nuovamente in ballo la storia della Germania Nazionalsocialista e lui, anziché ritrattare tutto come avrebbe fatto il moneymaker di turno, fece le dovute precisazioni: «Non possiedo solo roba nazista, colleziono oggetti d’epoca delle nazioni dell’Asse ma anche di paesi che non ne facevano propriamente parte come Lituania, Lettonia, Estonia, Finlandia o Ungheria». E tutti questi cimeli erano fieramente mostrati agli avventori della sua casa che talvolta, shockati, si sentivano dire dal padrone di casa «Alla mia ragazza afro-americana mica danno fastidio, perché dovrebbero darne a te».
Beh se a lei non davano fastidio a noi non possono che fare estremamente piacere e darci un ulteriore motivo per apprezzare non solo l’artista ma anche l’uomo che – se anche non si può certo definire fascista – ha fatto dell’anticonformismo e della coerenza uno stile di vita.
Una volta il The Guardian gli chiese perché lo facesse e la sua risposta fu chiara, d’altronde quale poteva essere se non «È pura insolenza, alla faccia di chi continua a chiedermelo».
Insomma, nonostante il tempo Lemmy Kilmister rimarrà senza dubbio uno di quei personaggi di cui non ci si dimenticherà e che rimarranno nella storia per essersi presi violentemente il posto che gli spettava nella scena. Chi ama il rock dovrebbe ringraziare Lemmy per aver ricordato a tutti, fino alla fine – e anche oltre -, cosa volesse dire essere davvero un rocker, vale a dire, per citare Jack Black in School Of Rock: «Combattere il potente!» (possibilmente facendolo morire sbigottito).
BORN TO LOSE, LIVE TO WIN!
Cioppi Cioppi