In questo giorno di febbraio del 1600 trovava la morte, a Campo de’ Fiori, a Roma, Filippo Bruno – a tutti noto come Giordano -. Vittima dell’oscurantismo del proprio tempo, Giordano Bruno decise, a discapito della vita, di non rinnegare le proprie idee e di perire sul rogo per mano di quella Chiesa che deteneva il monopolio della cultura e che decideva arbitrariamente della vita e della morte di ogni individuo.
Non si hanno molte informazioni in merito all’infanzia di Filippo Bruno, ma a quanto è noto nacque a Nola nel 1548. Proprio a Nola, prima, e presso l’Università di Napoli, poi, iniziò la sua formazione che avvenne ad opera di vari frati che, fornitegli le basi, lo iniziarono a varie discipline tra le quali la filosofia e l’oratoria.
L’educazione superiore era a quel tempo riservata agli appartenenti agli ordini sacerdotali, e fu proprio in nome di questo amore per la conoscenza che Filippo decise di prendere le vesti monastiche e di entrare nell’ordine dei Domenicani. A Napoli, probabilmente nel giugno 1565, fu consacrato novizio e, in concordanza con la regola domenicana, cambiò nome, assumendo quello di Giordano in omaggio al Beato Giordano di Sassonia, successore di San Domenico, o di Giovanni Crispo, un curato dal quale aveva ricevuto lezioni nell’ambito della metafisica.
In questi anni Giordano ebbe l’occasione di studiare su molti preziosi testi che erano custoditi nella biblioteca del convento di San Domenico Maggiore di Napoli, approfondendo così quelle materie che lo avevano appassionato negli anni dell’adolescenza e che costituiranno un’importante base per le sue opere.
Bruno non si piegò mai all’obbedienza di quelle regole che la veste monastica avrebbe imposto, ed in merito vi sono alcuni aneddoti: uno di essi racconterebbe che Giordano, dopo aver scagliato al vento le immagini dei santi, strinse un crocifisso, invitando poi un confratello a gettar via un’opera di Bernardo di Chiaravalle, tanto acclamato dalla Chiesa, e a leggere la ben più ardita Vita de’ Santi Padri di Domenico Cavalca. Riceviamo dunque un ritratto del filosofo nolano già sicuramente rivoluzionario.
Un Bruno che, nel pieno clima di controriforma, come fosse un predecessore di Montag – il protagonista di Fahrenheit 451 di Ray Bradbury – riuscì a procurarsi molte di quelle opere che erano state messe all’indice dalla Chiesa e a leggerle di nascosto nelle celle di quei conventi che lo ospitarono nel corso della sua esistenza.
Nel 1576 si ebbe un primo, inequivocabile e certo segnale del rifiuto di Bruno per quelle che egli considerava delle dottrine dogmatiche: discutendo con un altro frate, Agostino da Montalcino, in merito alle dottrine Arie, mise in dubbio la concezione trinitaria di Dio. Agostino lo denunziò al Padre Provinciale, un tale Domenico Vita, costringendo così Bruno a fuggire da Napoli e ad una lunga serie di vagabondaggi da un monastero all’altro.
Dopo anni di peregrinazioni in Italia e nel resto d’Europa, tornò stabilmente in Italia solo nel 1952, risiedendo presso l’aristocratico veneziano Giovanni Francesco Mocenigo, ammiratore delle opere teologiche, filosofiche ed esoteriche che Bruno aveva scritto negli anni di esilio forzato. Mocenigo offrì al frate nolano protezione e sovvenzioni se questi avesse accettato di far rientro in Patria e di dargli delle lezioni sulle discipline che Bruno aveva, nel corso degli anni, affinato.
Solo pochi mesi dopo, presumibilmente il 21 maggio, quando il filosofo informò il proprio mecenate di voler far ritorno in Germania per dare alle stampe dei nuovi lavori, il patrizio veneto, sospettando che si trattasse di una messa in scena al fine di abbandonare l’insegnamento, lo fece arrestare dalla propria servitù. Immediatamente lo accusò, querelandolo alla Chiesa, di blasfemia , di non credere nella trinità e nella verginità di Maria, e, in particolar modo, di credere nell’infinità dell’universo, nella molteplicità di mondi, nel moto della Terra e nella non generazione delle sostanze.
Proprio da queste accuse Bruno dovette difendersi facendo ricorso a quelle arti oratorie apprese e affinate nel corso della sua vita, in un processo che durò circa due anni, durante i quali fu anche, quasi certamente, torturato.
Il 12 gennaio 1599 il tribunale ecclesiastico, all’interno del quale figurava anche il cardinale gesuita Roberto Bellarmino, gli intimò per la prima volta in via ufficiale l’abiura delle tesi sostenute e riportate nelle proprie opere nel corso degli anni precedenti, ma Bruno, fiero delle proprie idee, rifiutò ogni forma di ritrattazione.
Seguiranno nel corso di questo anno vari ulteriori possibilità per Bruno di rinunciare a quanto affermato in precedenza, ma egli sosterrà sempre di non voler rinnegare a nessun costo le proprie argomentazioni perché convinto di non avere alcuna colpa da dover espiare.
L’8 febbraio del 1600 il tribunale, dopo avergli tolto il grado monastico, condannerà Bruno al rogo. Questi dopo aver ascoltato la sentenza in silenzio, mentre era inginocchiato di fronte alla giuria, si alzerà pronunciando la storica frase «Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam» («Forse tremate più voi nel pronunciare contro di me questa sentenza che io nell’ascoltarla»).
Il 17 febbraio 1600 sarà dunque condotto in Campo de’ Fiori con il capo cinto da un bavaglio di ferro che gli impedisse la parola. Dopo aver rifiutato l’estrema unzione e il crocefisso, verrà denudato, legato ad un palo, e arso vivo e le sue ceneri saranno sparse nel Tevere.
Quella che abbiamo è dunque l’immagine di un uomo che, incarnando un perfetto e completo esempio di abnegazione, decide di immolare la vita in nome delle proprie idee opponendole a quello che oggi molti definirebbero “pensiero unico dominante”.
Il tempo è passato, eppure il ricordo di Giordano Bruno è risultato un indelebile faro per coloro i quali hanno deciso quotidianamente di fare sforzi e sacrifici – in talune epoche finanche estremi – in nome della Libertà e della Giustizia. Proprio a perenne monito di tali ideali, il Fascismo erse infatti in suo nome, e lo stesso Mussolini lo difese strenuamente contro gli attacchi dell’ala filoclericale della Camera, la statua che si trova tutt’oggi in quella Piazza in cui Giordano Bruno trovò la morte.
Quell’esempio è e dovrà essere sempre vivo in coloro che, mossi dai medesimi sentimenti, decidono oggigiorno di muovere guerra a quegli stessi censori che, seppur diversi e con modalità differenti, cercano di imbavagliare, sottomettere e punire chi si oppone.
D’altronde, se è vero che il volto e i metodi sono cambiati, è anche vero che cambiata è la violenza con cui il martello del politicamente corretto colpisce chi non si allinea al pensiero unico e cerca di guardare oltre il “Velo di Maya”: all’epoca, a coloro che decidevano di non rinnegare le proprie tesi, era riservata la morte – spesso preceduta da indicibili violenze -. Al giorno d’oggi vengono commutati giorni di blocco sui principali social networks. Come possono dunque, con queste lame smussate, pensare di riuscire a fermare chi, ogni giorno, nelle strade e nelle piazze del nostro Paese, continua a combattere per il futuro del proprio Popolo portando avanti lo stesso spirito rivoluzionario e di ricerca della Verità e della Giustizia incarnato fino all’ultimo da Giordano Bruno?
Cioppi Cioppi