Per secoli l’uomo ha cercato il Sacro in ogni dove, in ogni sua forma, in ogni sua manifestazione. Fiumi di parole sono stati scritti per descriverlo e migliaia spedizioni sono state organizzate per trovarlo, tutte con l’obiettivo di giungere agli antipodi della civiltà, per trovare il minimo comun denominatore che unisse tutti quei Popoli che, pur differenziandosi per tradizioni e culture, provenivano in realtà da un’unica stirpe. Tanti studiosi tra antropologi, storici, teologi, mistici e filosofi hanno tentato in diversi modi di giungere alla stessa soluzione, ma tutt’oggi le conclusioni e le teorie sono innumerevoli, alcune inconciliabili, e nel tempo la questione – prima ritenuta di importanza fondamentale – è decaduta fino a divenire un mero pretesto per produrre programmi d’intrattenimento demenziali, racconti di bassa lega o assurde teorie complottiste.
Uno degli ultimi che ha tentato, facendo uso di tutta la sua volontà e di tutta la sua conoscenza, di svelare questo collegamento che segretamente ancora persiste tra le genti del nostro Vecchio Continente, fu Otto Rahn, che per la sua entusiastica ricerca ha dato tutto, persino la vita.
Otto Rahn nacque il 18 febbraio del 1904 a Michelstadt, in Assia, nella Germania centro-meridionale. Il giovane, che già da ragazzo probabilmente prospettava per sé una carriera da storico, sviluppò durante gli anni delle superiori una passione senza precedenti per la poesia medievale, in particolare quella occitano-provenzale, che dietro le liriche narranti di gesta gloriose, di sovrani, di leggende cavalleresche e amori sensuali o platonici, spesso nascondevano riferimenti a fatti realmente accaduti. Una costante di tutte queste opere era sopratutto il Sacro Graal, la mitica coppa da cui Gesù Cristo avrebbe bevuto nell’Ultima Cena, e dove Giuseppe di Arimatea avrebbe raccolto il suo sangue che sgorgava dalle ferite inflittegli dalla la crocifissione; solo i puri di cuore potevano possederlo e riceverne i benefici, la vita eterna e la saggezza.
Ma chi poteva considerarsi così integro ed incorruttibile tanto da potersi reputare senza peccato? Chi mai avrebbe potuto custodire per l’eternità il sacro calice?
Rahn svolse le sue ricerche a partire dall’analisi del Parzival, capolavoro della letteratura tedesca di quel periodo scritto dal poeta-cavaliere Wolfram von Eschenbach e poi ripreso da Wagner per il suo dramma. Egli, come altri studiosi, identificò il misterioso Kyot il Provenzale, a cui l’autore fa riferimento come suo ispiratore, in Guiot di Provenza, leggendario troviero della corte occitana. Alla fine le sue indagini lo portarono proprio in Occitania, nella terra d’origine dei cantori e dei menestrelli, che esplorò in lungo e in largo dal 1929 al 1932 con l’aiuto di un altro valente storico Antonin Gadal, con il quale condivideva i fini della spedizione; la sua permanenza nelle terre meridionali francesi e l’investigazione sul destino del Graal a partire dai testi poetici lo portarono inevitabilmente a scoprire un altro grande elemento che aveva caratterizzato la regione tra il X e il XIII secolo: il Catarismo.
Rahn giunse alla conclusione che ad aver detenuto il sacro calice fossero stati proprio i seguaci di questa eresia, della quale molti trovatori del passato avevano fatto continua menzione rimarcandone l’importante presenza in Linguadoca e sottolineando che raramente essa mancò dell’appoggio e della protezione da parte dei nobili locali. Come altri anche von Eschenbach accennò alla diffusione di questa eresia e dei suoi seguaci fin nel sud della Germania.
I Catari impersonavano benissimo quel modello di fedeli puri, votati al sacrificio estremo, che i miti descrivevano come unici possibili custodi della santa reliquia: la loro dottrina imponeva di vivere nella più completa povertà, privi di qualsivoglia proprietà e spingendoli a privarsi anche di qualsiasi altro bene o piacere materiale, come il cibo e i rapporti sessuali. Tutta la materia per loro era fonte di malvagità, in quanto consideravano la Terra e la vita su di essa come la gabbia che Satana aveva creato per le loro anime, e astenersi da qualsivoglia contatto con il mondo fisico per dedicarsi ad una vita di completa meditazione rappresentava per loro la massima comunione con Dio. Pur credendo nella figura di Cristo e nel Nuovo Testamento, il loro credo era di carattere gnostico, basato cioè su una conoscenza segreta a cui solo pochi eletti potevano attingere, in questo caso i ministri del culto e i predicatori, che avevano compiuto il primo passo nel condurre questa vita ascetica. Questi, come antichi sacerdoti pagani, vivevano in comunità condividendo fra loro tutte quelle poche cose che ancora “possedevano”; tali considerazioni, assieme alla netta distinzione che ponevano tra il concetto di bene e male – di carattere spiccatamente manicheo – e alla contrapposizione tra una realtà terrena e una spirituale, bastarono a Rahn per teorizzare che in realtà il catarismo altro non fosse che la sintesi di religioni indoeuropee molto più antiche ma con una radice comune: il culto della luce e delle divinità solari. La fede e la dottrina dei propugnatori albigesi poteva rappresentare l’indice di continuità tra la cultura druidica celtica e le fedi rivelatrici provenienti dalle terre Indo-Persiane. Dopotutto, anche la leggenda del Graal ha dei precedenti nelle saghe pagane del Nord-Europa, e la sua identificazione non solo in calice ma anche in altri oggetti: proprio nel Parzival d’altronde, per la prima volta nel Ciclo Bretone, viene identificato non più come calice ma come pietra preziosa; e, sempre in quest’opera, il luogo in cui l’oggetto viene portato dall’eroe e dai suoi compagni, Sarraz, venne poi identificato nella località Iraniana chiamata Takht-e-Soleyman (Trono di Salomone), che costituì altresì un importante luogo di culto della dottrina Zoroastriana.
Otto condusse le proprie ricerche, piuttosto che nelle maggiori città in cui il movimento ereticale era diffuso, nei rifugi naturali in cui ai tempi della persecuzione operata dall’Inquisizione, dai Crociati e dall’Ordine Domenicano gli eretici furono costretti a nascondersi e usare come luogo di culto: tra queste vi erano le cave di Ussat, le grotte di Lombrives e la valle dell’Ariège (che, curiosamente, in tempi antichi ospitava un lago a forma di calice), ma soprattutto i cunicoli sottostanti il castello di Montsegur, ultimo bastione della loro resistenza. In questi luoghi lo studioso trovò un’incredibile quantità di graffiti, alcuni dei quali si erano completamente confusi con altri che erano invece di origine preistorica, suggerendo un utilizzo ancor più antico di quelle insenature come luoghi sacri e di culto.
Al suo ritorno in Germania, raccontò le sue esperienze in Linguadoca e Provenza nel libro Crociata contro il Graal. Il libro ebbe un discreto successo e in particolare il suo contenuto attirò l’attenzione di Heinrich Himmler, il quale decise quindi di reclutare Rahn tra le sue fila di archeologi e studiosi dell’Ahnenerbe, la “Società di ricerca dell’eredità ancestrale”, il dipartimento delle SS che si occupava di cercare conferme circa la provenienza e gli elementi comuni delle civiltà Indo-Arie. Nell’estate del 1936 intraprese, per ordini dello stesso Reichsführer, una spedizione in Islanda per indagare sul culto germanico odinista praticato sull’isola, ma non ottenne i risultati sperati. Nel ’37 pubblicò su commissione dell’ufficio centrale il suo secondo libro, La corte di Lucifero, ulteriore resoconto dei suoi viaggi e delle sue scoperte, che introdurrà così:
«Questo libro, che ha come punto di partenza le pagine di un diario, è stato scritto in un villaggio dell’Alta Assia, nel cuore del paese dei miei antenati pagani e dei miei avi eretici. Il manoscritto è sulla mia scrivania: voglio concluderlo. Il frammento di marmo caduto da un fregio del tempio di Delfi pesa sui fogli ricoperti di scrittura fitta. Altre due pietre, quella di Montségur e quella di Reykholt impediscono al vento di sparpagliare o portar via i fogli disposti in due pile a destra e a sinistra».
Purtroppo la sua carriera nelle SS durò poco: a causa delle sue opinioni sempre in contrasto con quelle dei superiori e del sospetto che stesse creando in seno all’organizzazione una fazione neo-catara, unite alla scarsa disciplina militare e al suo carattere anticonformista, venne riassegnato per un breve periodo ad incarichi di servizio a Dachau. Tuttavia, con il passare dei giorni, il suo atteggiamento, prima colmo di fervore e dedizione, andava cambiando verso uno stato di ansia perenne, che infine, come testimoniano alcuni rapporti ufficiali, lo portò ad avere problemi con l’alcolismo. Da questo punto in poi gli avvenimenti diventano confusi e confermati solo da poche testimonianze. L’epilogo della sua vita, come la leggenda del Graal, diventa un mistero.
Sempre più emotivamente e psicologicamente consumato dalla vita che conduceva, e convinto di essere stato messo sotto sorveglianza dalla Gestapo, nel 1938 rassegna le dimissioni dalle SS, alle quali, come sostenuto da alcune fonti, pare che Himmler abbia risposto con un freddo e semplice «Sì». Da qui si perdono le sue tracce, si hanno sporadici avvistamenti, ma dello storico Otto Rahn non si ha più notizia, fino al ritrovamento del suo cadavere congelato sulle Alpi Austriache, l’11 aprile del 1939. Le cause del decesso, che si stima sia avvenuta il 13 o il 14 marzo, rimangono (e forse rimarranno per sempre) un’enorme incognita: c’è chi dice si sia lasciato morire di ipotermia, chi invece di overdose di barbiturici (furono ritrovate nella giacca due fiale di sonnifero), altri addirittura affermano che abbia inscenato la propria morte.
I Catari coronavano la loro comunione con Dio lasciandosi serenamente morire di fame e di sete durante la preghiera, un lungo e lento processo di decadimento fisico chiamato Endura, che avrebbe portato infine l’anima in comunione con Dio.
Non sappiamo come sia morto Otto Rahn, ma ci piace pensare che il suo trapasso sia stato la conclusione perfetta di una vita romantica, vissuta all’insegna della conoscenza del passato e dello spirito europeo. Una morte un po’ stoica, un po’ faustiana, che ha sicuramente portato con sé tantissime cose che oggi non sappiamo, e che, forse, non sapremo mai.
«La loro dottrina permetteva, come quella dei Druidi, il suicidio; tuttavia esso esigeva che si mettesse fine alla propria vita non per stanchezza di vivere, per paura o per dolore, ma in uno stato di perfetto distacco dalla materia. Questo tipo di Endura era permesso quando veniva effettuato in una visione momentanea e mistica della Bellezza e della Bontà divina. […] l’ultimo atto dell’annientamento della carne richiede eroismo. La concatenazione non è affatto così crudele come sembra.»
Saturno